punto di (s)vista

Dario Marchiori e Federico Rossin
PUNTO DI (S)VISTA: MAURO SANTINI

I “lavori” – come li ha chiamati per lungo tempo – di Mauro Santini costituiscono un caso di studio particolare e rivelatore nel panorama del cinema sperimentale contemporaneo, in Italia ma non solo. Santini è un artista al tempo stesso profondamente appartato e dal respiro universale, provinciale e conosciuto in tutto il mondo, completamente indipendente eppure abitato da immagini di autori mondialmente riconosciuti. La sua opera è esemplare proprio per la sua singolarità assoluta: paradosso che ci dice da sempre – riecheggiando l’eterno Godard – che per capire la regola bisogna attraversare l’eccezione.
Umile e ambizioso, artigianale e artistico, il lavoro di Mauro Santini inizia a farsi conoscere all’inizio degli anni 2000, quando mette in secondo piano il desiderio di fare cinema di finzione e si abbandona ad una ricerca più intima e personale. In un’epoca in cui il mercato impone una precocità artistica e una creatività codificata, Santini diventa autore in un’età matura, a 35 anni, spinto dalla necessità di un lavoro sulla memoria. Santini mostra da subito di avere una coscienza profonda dell’interrelazione, nel vissuto che cerca di trascrivere, tra il reale e l’immaginario: il suo percorso di videasta comincia dal soggettivo, dalla Lisbona di Pessoa che rimarrà sempre al centro della sua poetica, nel documentario immaginario Dove sono stato (Hi-8, 2000), e prosegue col quinquennale progetto – scoperto come tale in corso d’opera – dei “Videodiari”, che lo occupano durante la prima metà degli anni 2000. Un percorso nella memoria, per confrontarsi all’ineluttabile passaggio del tempo, alla sparizione dei propri cari, al trascolorare dei sentimenti: il primo videodiario, Di ritorno (Hi-8, 2001), nasce dall’urgenza di confrontarsi con la morte del padre. Dell’ultimo dei suoi video diari (il settimo), Flòr da Baixa (miniDV, 2005), Santini realizzerà una nuova versione di un’ora e un quarto l’anno successivo, che costituisce un vero e proprio punto di svolta per la sua opera: il lavoro sulla memoria si è compiuto, e Monica, la sua compagna, incarna ormai una sintesi possibile tra le sue vite immaginarie. Ovvero, l’ipotesi di uno sguardo condiviso sul mondo. È così che il lavorio incessante di metamorfosi dell’immagine, presente inafferrabile che si trasforma continuamente secondo i moti dell’animo, trova requie nella felicità della comunione con la propria compagna, con la neonata famiglia.
Dopo Flòr, una nuova avventura si profila all’orizzonte, quella delle “impressioni di città europee”, cinepoemi girati in ventiquattro ore poemi piuttosto che “sinfonie di grande città” d’altri tempi: per questo, Santini li chiama “giornalieri”. Ormai più vicino al documentario, il cinema di Santini rimane un cinema in video, camera alla mano, assolutamente indipendente e personale, senza sceneggiatura: “l’opera di una persona sola”, come voleva Stan Brakhage. L’atto di vedere con i propri occhi. Nei Videodiari, lo straniamento formalista è il principio che informa la rilettura delle immagini autobiografiche e della scrittura del presente giorno dopo giorno: lo sfocato, il ralenti, le dissolvenze e le sovrimpressioni lavorano incessantemente l’immagine come una visione atmosferica che i quattro elementi fanno filtrare in ogni istante, per farla galleggiare, bagnarla, bruciarla, renderla terrosa… Una tensione onnipresente tra figurazione e astrazione, e tra bidimensionalità e terza dimensione, alberga nell’ambiguità sfocata dei corpi trasfigurati in macchie multicolore e cangianti. La memoria è un’oscillazione del subconscio che allontana la realtà per meglio esplorarla; perché alla fine del processo di straniamento, risorge per Santini l’immagine memoriale, trasformata, ritrovata: la fine di Petite mémoire (miniDV, 2003), di un biancore abbagliante, ritrova il colore delle spiagge e dei muri di Fano, la città natale di Santini. Sovraesposti, “uomini pieni di maschere / avvampano sul litorale” come ha scritto il poeta Giorgio Caproni, particolarmente caro al regista marchigiano.
Per penetrare a fondo nella calda materia affettiva dei videodiari e del processo conoscitivo-estetico di Mauro Santini, è necessario fare una premessa teorica complessa, che di tali lavori è insieme un’ipotesi di definizione formale e di genealogia figurativa. Ne L’interpretazione dei sogni Freud (1900) scrive, nel capitolo intitolato Il lavoro di condensazione: “Il sogno è scarno, misero, laconico in confronto alla mole e alla ricchezza dei pensieri del sogno. Il sogno, trascritto, riempie mezza pagina; l’analisi che contiene i pensieri del sogno ha bisogno di uno spazio sei, otto, dodici volte maggiore”. Freud sta descrivendo il concetto-chiave di condensazione e ipotizza un processo analitico, a cura appunto dell’analista, di comprensione del sogno attraverso una sua de-condensazione: si tratta di sciogliere, di-spiegare ciò che la condensazione ha annodato. Ma cos’è la “condensazione”? È un meccanismo fondamentale del lavoro onirico che consiste nella concentrazione di molti elementi dei pensieri onirici latenti in un’unica rappresentazione del contenuto manifesto. Freud ha sempre scritto che il contenuto manifesto del sogno non è altro che una compressione dei pensieri latenti: il sogno che ricordiamo al mattino è solo un compendio dei tanti e stratificati pensieri onirici; il contenuto manifesto è quindi una riduzione dei pensieri latenti. È proprio il processo che va sotto il nome di condensazione che permette questa riduzione dei pensieri latenti. Nella formazione del sogno, il lavoro psichico si scompone in due operazioni differenti: la produzione dei pensieri del sogno, e la loro trasformazione in contenuto del sogno. La prima operazione plasma il desiderio attraverso i pensieri latenti, che costituiscono una prima forma di organizzazione figurale del desiderio. La seconda operazione, invece, per effetto della censura, trasforma i pensieri latenti del sogno in contenuto manifesto.
Freud ha suddiviso questo lavoro di trasformazione attraverso quattro meccanismi che ne costituiscono l’intero processo: la condensazione, lo spostamento, il riguardo per la raffigurabilità e l’elaborazione secondaria. La condensazione riduce i pensieri latenti in molti diversi modi: quello che ci interessa qui è il suo funzionamento attraverso le immagini. Ci capita spesso di sognare qualcuno il cui volto è il risultato della condensazione dei tratti di più persone. In tale evenienza diciamo: “la faccia mi ricorda X, i capelli mi ricordano Y, le orecchie Z” – ovvero, uniamo due o più immagini in un’unica immagine onirica. L’unificazione delle immagini si produce tramite la giustapposizione dei tratti del volto che concordano, e l’esclusione di quelli che non concordano. Freud definisce “persone collettive” o “persone miste” queste nuove unità d’immagine che nascono grazie al processo di condensazione. A titolo di esempio pensiamo alla sovrapposizione d’immagini che Freud cita analizzando il sogno dello zio Josef. “Il viso che vedo in sogno è, nello stesso tempo, quello del mio amico R. e quello di mio zio. È come una delle fotografie sovrapposte di Galton, che per stabilire somiglianze familiari faceva fotografare più visi sulla stessa lastra”. In sostanza per Freud gli elementi del sogno sono sempre sovradeterminati. Per sovradeterminazione, concetto freudiano decisivo, s’intende il fatto che i singoli elementi del sogno abbiano molteplici significati. La condensazione mostra quindi anche i motivi per cui spesso non riusciamo immediatamente a cogliere il senso del sogno.
La parola tedesca Verdichtung, oltre a “condensazione” significa anche concentrazione, concisione, ispessimento, fusione, sintesi: tutti sostantivi che potrebbero benissimo caratterizzare l’essenza dei videodiari di Mauro Santini. Christian Metz, nel suo capitale libro su cinema e psicanalisi, Le Signifiant imaginaire, parla della condensazione come di un cumulo di intensità, una configurazione significante, un grande principio simbolico basato sulla sovrapposizione e la continua invenzione di rapporti nuovi tra le cose. Lavoro onirico, condensazione, sovrapposizione: ipotizziamo ora che queste nozioni non siano altro che una ridefinizione, o meglio una traduzione in termini figurativi dei due processi formali che fondano più di altri il lavoro video di Mauro Santini, la sovrimpressione e lo sfocato. Lavorando ad una loro definizione teorica e formale emergerà la nostra ipotesi critica – una sorta di de-condensazione di due tipi di immagini, appunto.
La sovrimpressione è, come ha scritto Jacques Aumont, una commistione, un “mélange di immagini”, un prodigio visivo, dal momento che all’occhio vengono offerte in ogni punto dell’inquadratura due possibilità concorrenti di lettura di ciò che percepisce – secondo che esso lo rapporti all’una o all’altra delle due immagini fuse insieme. Nel periodo del muto la sovrimpressione è stata prevalentemente utilizzata associandola al sogno, al fantasma, all’allucinazione, all’alterazione dello stato mentale dei personaggi: oggi l’uso sempre più controllato della tecnica videografica e digitale ha rinnovato il mélange d’immagini permettendo di padroneggiare il ritmo, l’intensità, la frequenza degli interventi di un’immagine in/su un’altra.
Ancora Metz, nel capitolo Trucchi e cinema, scrive che la sovrimpressione è una condensazione di più elementi, una sovrapposizione di due unità di percezione. E Marc Vernet, nel capitolo dedicato alle sovrimpressioni del suo Figures de l’absence, ne scrive come di un miscuglio di “fusione e separazione […] di marca enunciativa e di marca evocatrice, […] di primario e di secondario, […] di metafora e di metonimia”. Sempre secondo Vernet, “la sovrimpressione ha mantenuto la sua forza di sospensione e di contemplazione, la sua efficacia linguistica e poetica, soprattutto come figura privilegiata della nostalgia”. Ritroviamo qui, legata ad un processo formale, una delle caratteristiche emozionali fondamentali del lavoro di Santini, la nostalgia appunto: nell’uso che Santini fa della sovrimpressione – e pensiamo soprattutto a Fermo del Tempo (miniDV, 2003) –, il volto sovrimpresso si diffonde nell’immagine impregnandola completamente e legando fra loro due elementi eterogenei in un’unica inquadratura, in un unico spazio: l’appiattimento, la sproporzione prospettica, il dissolversi del quadro nel quadro e la diffusione dell’immagine nell’immagine, e cioè le caratteristiche della sovrimpressione, diventano parte di un processo di condensazione e di metaforizzazione. Il raddoppiamento fotografico di due immagini realistiche “rende diafano il soggetto e innesta nella rappresentazione l’evocazione”: evocazione “del pensiero, del ricordo, dello spirito”. La sovrimpressione “rende visibile l’invisibile”.
La dimensione nostalgica e memoriale dei videodiari nasce proprio da qui: una separazione dolorosa, una lacuna del cuore come direbbe Vittorio Sereni, è marcata dall’uso della sovrimpressione e da tutta una serie di immagini-ponte che ne fanno da base: “la posizione alla finestra”, il viaggio in treno, insomma i momenti in cui “un personaggio è separato da un luogo attraverso un vetro o causa di uno spostamento; in questa separazione, la metonimia si riattiva attraverso una metafora nel momento preciso della sovrimpressione”. Seguendo ancora lo splendido saggio di Vernet si trova un’ulteriore passaggio illuminante: “la completa occupazione dell’inquadratura da parte dell’immagine immaginata o ricordata altro non è che un’invasione del pensiero del personaggio, rappresentato attraverso il suo volto, invasione alla quale non sa opporsi e che non può contenere”. L’immagine contenente viene sommersa – e usiamo metafore acquatiche non a caso, essendo l’elemento liquido la sostanza pressoché “ontologica” dell’immaginario di Santini – e diviene così “il contenuto del suo contenuto: inondando il volto, togliendone la sua sostanza, la sovrimpressione raffigura la cancellazione del soggetto, la sua progressiva scomparsa, la sua debolezza davanti alla forza incontenibile del ricordo” e della nostalgia. All’immagine sovrimpressa non basta più diffondersi nell’inquadratura, essa “viene sciolta proprio da ciò che produce”, mentre il ricordo del soggetto finisce per sfaldarne i tratti: “l’osmosi diviene emorragia, perdita, diluzione che passa dal significante dell’immagine, la sua costruzione, al significato del personaggio, la sua decostruzione”.
La magia della sovrimpressione raddoppia la rassomiglianza “facendo emergere forme da altre forme, una rappresentazione da un’altra rappresentazione”, e mettendo in crisi i modelli percettivi dello spettatore si pone come paradigma de-figurativo del reale che ri-figura il visibile facendone emergere i tratti invisibili, le ricorrenze nascoste, le inattese migrazioni simboliche. Creando uno spazio apparentemente frammentario, la sovrimpressione serve a Santini per richiamare lo spettatore ad un processo autonomo di riempimento immaginario attraverso legami di contiguità figurativa e di rassomiglianza morfologica, lasciandolo libero di ripercorrere lo spazio e il tempo delle due immagini mescolate tra loro: nessuna briglia ad irreggimentare e a funzionalizzare le immagini all’interno di sequenze banalmente narrative. Il cinema sperimentale è una nuova esperienza percettiva e conoscitiva (Brakhage parlava di “avventura percettiva”). Ed infatti che cosa vediamo nelle sovrimpressioni dei videodiari? L’occhio umano, “utensile di puntamento, di focalizzazione”, capace di fornire al cervello una sola informazione chiara alla volta, si trova spiazzato dalla logica non più binaria della sovrimpressione: non dobbiamo pensare al mélange di immagini come ad un “1+1=2”, le immagini qui “non si addizionano né si sottraggono, ma interagiscono fra loro formando una nuova entità complessa”. Come scrive Gilles Deleuze, “il problema non si pone più in termini di parti-tutto (dal punto di vista di una possibilità logica), ma in termini di virtuale-attuale (attualizzazione di rapporti differenziali, incarnazione di punti singolari)”.
Le sovrimpressioni rappresentano un momento di stasi all’interno del flusso del film, eppure nei Videodiari esse acquistano anche un valore potenziale e dinamico forte, e cioè la capacità di incarnare con paradossale esattezza quella zona provvisoria in cui è impossibile discernere le immagini tra loro – una zona perfettamente atta a raffigurare la memoria e i sentimenti di vaghezza – quel “dove comincia qualcosa e dove finisce qualcosa d’altro” cui la musica “amniotica” dei Videodiari concorre fortemente. La sovrimpressione è allora visione del ricordo (una marcatura forte che distingue in modo unico i piani temporali e spaziali, il rapporto tra il qui e l’altrove, il presente e il passato, creando un rapporto spazio temporale obliquo), ma anche ricordo della visione (momento più raro e quasi indistinguibile): il tempo della sovrimpressione è ucronico, e cioè segue un corso temporale alternativo rispetto a quello reale (come accade al tempo del sogno), in cui la nozione stessa di durata e di tempo perdono significato (per questo il lavoro di rallentamento delle immagini si moltiplica quando intervengono le sovrimpressioni e il flou). La sovrimpressione e l’immagine onirica condividono una stessa sostanza temporale: nessuna “temporalità (difficile dire quanto durano), nessun tempo proprio (non si capisce l’ordine di successione delle immagini), nessuna origine assegnabile (non si sa da dove vengano)”. Né il tempo vissuto né il tempo misurabile aiutano lo spettatore a cogliere l’impossibile di cui sono le figurazioni più vivide. Compressione e rimodellamento del tempo nella sovrimpressione sono paragonabili alla condensazione e alla sovradeterminazione delle immagini nel sogno: entrambi afferiscono alla sfera dell’irreale, e della promessa.
Ogni videodiario si struttura idealmente come una ripresa unica, che sottopone l’immagine ad una metamorfosi interminabile: allergico all’immagine fissa, Santini opera un doppio movimento, complementare, di dilatazione analitica e di accumulazione sintetica. Da un lato, il ralenti gli permette di variare la velocità di trasformazione dell’immagine e della sua trama, sospesa tra continuo e discontinuo: spostamenti, scatti delicati, tracce e striature… Santini sperimenta in ogni direzione le intuizioni di Epstein, Vertov o Benjamin sul cinema come espansione della nostra capacità di vedere il mondo. D’altra parte, grazie alle dissolvenze, il film resiste al puro scorrimento così come ai tagli brutali, mentre il potere della sovrimpressione opera una condensazione di elementi onirici, di forme, di storie. Santini non si limita a raccontare una sola storia, più o meno chiara o credibile, piuttosto ne riunisce diverse in un nucleo memoriale incandescente che le rende plurali, aperte, possibili: pensa di fare un lungometraggio di finzione e ne porta a termine solo i sopralluoghi, perché i fantasmi accorrono a possedere luoghi e persone, e il piano di lavoro del film deve fermarsi per andare più lontano, per scavare più profondamente nell’animo di chi lo crea, e di chi ne farà l’esperienza in sala. Così Santini può raccontare tutte le storie che vuole, senza abbandonarsi alla continuità eteronoma dei codici della finzione, e di una sola finzione: i doppi che attraversano i suoi film sono piuttosto diffrazioni prismatiche della memoria, che condensano diverse storie per fonderle nei vari livelli dell’immagine. Santini attraversa e percorre le immagini del passato e del presente come un artigiano: ricco della povertà dei suoi mezzi, le filtra attraverso la sua percezione, grazie alle sue abilità tecniche e capacità inventive. Per esempio, quando rifilma da uno schermo televisivo un trasferimento video dei film di famiglia della sua compagna Monica (in Da lontano, miniDV, 2002), Santini vi proietta la sua soggettività, la sua necessità di inscrivere le immagini sognate di un’altra infanzia, la sua, che non era mai stata filmata: due infanzie trovano la loro sintesi nella scrittura di una memoria comune, proiettata verso il futuro, ovvero la storia di Mauro e Monica. Le immagini di un passato effimero si trasformano in immagini di un futuro che viene consegnato all’immaginazione dello spettatore.
L’altro procedimento formale caratterizzante al meglio la ricerca figurativa ed estetica dei video di Mauro Santini è lo sfocato, il flou. Gilles Deleuze assimila il flou al secondo e al terzo stato dell’immagine dopo lo stato solido: quello liquido, legato all’avanguardia degli anni ’20, e quello gassoso, proprio del cinema sperimentale dal secondo dopoguerra in poi. Jacques Aumont, nel suo Du Visage au cinéma, sottolinea l’uso contemporaneo del flou in senso prettamente sensoriale, fisico: il flou marcherebbe un ritorno alla plasticità della superficie dell’immagine, un’immagine che viene resa aptica, che mostra cioè una tattilità in movimento, un contatto corporeo potenziale che si dispiega nelle distorsioni e dislocazioni figurative che subisce la sua materia visuale. Il flou contraddice tutte le leggi di verosimiglianza realistica ma soprattutto deborda dal quadro, dall’inquadratura, dall’immagine, facendo del proprio indistinto una possibilità di percezione dello spazio totalmente altra, che utilizza lo schermo come una tela d’action painting, da cui può in ogni momento colare verso di noi una materia incandescente. Con il flou l’immagine diviene superficie in cui nulla è più gerarchizzato, funzionalizzato, centralizzato: il mondo viene completamente riconfigurato dagli sconvolgimenti percettivi e cognitivi cui l’immagine fuori fuoco ci obbliga.
Con il flou la relazione binaria realtà-astrazione cade completamente: immagine come traccia di qualcosa o traccia di un’immagine? Nei videodiari valgono entrambe le cose ma per Santini il flou è soprattutto lavoro onirico-estetico, condensazione-defigurazione, fino ad una destrutturazione ontologica dell’immagine video, analogica (in Di ritorno) poi digitale, ad una sua riconfigurazione in senso pittorico, grafico, materico. I pixels diventano per lui materia-colore con cui dipingere pensieri e ricordi, il video si fluidifica come sotto la pressione di un pennello che cerca il guizzo sulla tela, la grana dell’immagine si addensa, impastando tra loro luoghi e volti, figure e sfondi. Un doppio binario, quello del battito “vuoto-pieno”, sostituisce la polarità “reale-astratto”: l’immagine aptica svuota l’inquadratura fino all’opacità di un bianco abbacinante, che brucia l’immagine riempiendola di una densità insostenibile, che ne distrugge i bordi per la sua forza di trasfigurazione. Non si può evocare la sostanza della visione e del ricordo, se non esponendo l’immagine al rischio della sua scomparsa: come l’immagine sovrimpressa viene sciolta proprio da ciò che produce, così il flou finisce per mangiarsi l’immagine creandone un’altra, che appartiene ad un diverso regime percettivo. Il fuori fuoco distrugge la rappresentazione attraverso un processo metamorfico fatto di appiattimenti, stiramenti, rarefazioni che rimanda al lavoro della condensazione onirica di cui si è detto dianzi.
Certo, Santini scava l’opacità delle/nelle immagini per ottenerne di nuove, e per raggiungere finalmente un altro regime d’immagini; eppure, defigurando l’immagine non perde di vista la realtà, la trasfigurazione non spinge verso la metafisica, ma verso un rapporto più profondo alla realtà. Non è un caso quindi se il cinema di Santini riscopre anche la trasparenza rappresentativa della finestra aperta sul mondo (tuttavia, non proprio quella, spesso citata, del celebre passo de Della Pittura di Alberti, la finestra “onde si possa vedere l’historia”). Come nel “panorama” del pre-cinema o del cinematografo, l’occhio si lascia trasportare dalle macchine della modernità (treni, auto) per riscoprire il mondo. Ma “non c’è nessun treno, solo immagini che scorrono” (Di ritorno): la trasparenza è immaginaria e mediata, e per questo Santini mette in risalto le cornici delle finestre così come le striature, le macchie, i riflessi che si disegnano Dietro i vetri (è il titolo del secondo videodiario, miniDV, 2001). Dietro i vetri, al di qua e al di là delle finestre, o della videocamera, la circolazione del soggetto e dell’oggetto sono sotto il segno della separazione e della congiunzione; la visione è sempre al contempo deformata e riflessa, opaca e trasparente, sospesa fra la linea e la macchia. L’immagine è sempre filtrata, perché “l’obiettivo è un liquido consolidato” (Sokurov), un vetro duro che separa nel momento stesso in cui collega al mondo: straniamento ed empatia sono un tutt’uno. Il cinema intimo di Santini è come un viaggio intorno alla sua camera, impregnato di wendersiana erranza eppure confusamente cercando la via del ritorno ad un luogo originario, come Odisseo. Il cinema è un dispositivo regressivo che fa balenare la nostra infanzia nella camera oscura del subconscio: la fluidità amniotica della composizione sonora dei film di Santini irrora le orecchie di una memoria che non è la nostra e che comunque risuona in noi. Tuttavia, ogni nostalgia autentica conosce l’impossibilità del ritorno e si trova costretta a situare l’assenza nel cuore stesso dell’immagine, che diventa una configurazione luttuosa dell’effimero. Espandere il tempo dell’immagine è un modo per afferrare il tempo così come di dichiararne lo scacco: il movimento continuo dell’immagine, e nell’immagine, è la forma stessa di questo anelito paradossale di “fermare il tempo” (Fermo del tempo, miniDV, 2003). Ovvero, come scriveva André Bazin: il cinema come “mummia del cambiamento”.
Il percorso dei Videodiari nasce da una coscienza profonda dell’effimero, e inizialmente (Di ritorno) dall’urgenza di elaborare il lutto del padre grazie all’immagine, e forse per questo, oltre a ricorrere costantemente alla sovrimpressione e allo sfocato, si trova impregnato di una tensione sottile, quasi indicibile, al monocromo e al campo vuoto. Lo rappresenta bene una nuvola che va dissolvendosi alla fine di Dietro i vetri, lasciando in campo solo il cielo blu; o il fatiscente muro scrostato e sfocato che conclude Di ritorno, mentre una foto di famiglia appare e scompare rapidamente in sovrimpressione. Ma col passare del tempo questo colore azzurro come il mare si anima e diventa più luminoso, mentre Monica diventa sempre più la figura centrale dei videodiari: su di lei si conclude Flòr da Baixa, è lei che riempie per quanto possibile questo vuoto, con un nuovo equilibrio d’amore. Come un Viaggio in Italia attraverso il mondo intero, Flòr da Baixa (il lungometraggio) racconta la storia di una separazione e di una riconciliazione davanti e grazie ad un’immagine finalmente comune: una veduta luminosa, assolata, dalla finestra della pensione di Lisbona che dà il titolo al film. Flòr da Baixa riassume l’intero percorso formale dei videodiari, e ne esteriorizza lo sguardo introspettivo attraverso il racconto di un’erranza trasfigurata: Lisbona, Rio de Janeiro, Marsiglia, Taranto, ancora Lisbona.
Una finestra aperta sul mare: lentamente, l’occhio della videocamera avanza all’apertura d’aria tra i vetri, la sorpassa, e si immerge nel totale dell’immagine del mare: è la prima inquadratura di Flòr da Baixa, sia nella versione più corta che nella versione lunga. Un’inquadratura a mezza strada tra il finale de L’arca russa di Sokurov, un gesto dello sguardo che tende liberazione finale dalla Storia come dalla nostalgia, e l’immagine fissa (la fotografia di un’onda del mare) cui tende segretamente il movimento paradossale di Wavelength di Michael Snow. Non citazioni, ma migrazioni di immagini, che affondano le radici profondamente nell’inconscio della memoria visiva, tanto più sconvolgenti quanto più casuali, come citazioni impossibili: si potrebbe ad esempio vedere una citazione da Monteiro (l’inizio dei Ricordi della casa gialla, che Santini non aveva visto) laddove si trovano “soltanto” una sensibilità e un luogo e una saudade comuni, nel caso del carrello-panoramica sul mare di Lisbona in Flòr da Baixa. Oppure saranno davvero citazioni, ma allora irriconoscibili, trasfigurate dalle mille varianti dello sfocato, come alcune inquadrature dei pasoliniani Sopralluoghi in Palestina in Da lontano, o del Viaggio in India di Rossellini in Da qui, sopra il mare. Perché i film di Santini sono un diario indecifrabile, consegnato in dono allo spettatore e alle sue capacità di proiezione: dei suoi sogni, dei suoi ricordi, delle sue emozioni. Cinema personale e memoriale, che sfugge a tutte le etichette di “genere” (sperimentale, documentario, finzione…) per lavorare più in generale sull’immagine e sull’immaginario cinematografici. Ogni videodiario costruisce un nodo memoriale attorno ad un’idea formale, ri-figurando la percezione del mondo nella memoria condivisa di un film di famiglia; allo stesso modo, Santini ristruttura la nostra memoria visiva di spettatori riecheggiando l’immaginario video contemporaneo, la ricerca spesso meramente contemplativa e vacua di uno stato fluttuante e sospeso.
Flòr da Baixa – nelle sue due versioni, quella corta che chiude i videodiari, e quella lunga completata un anno dopo – è il perno incandescente del percorso creativo di Mauro Santini, ed inaugura l’idea di uno sguardo sui “passanti” che pare emblematico della modernità – in particolare di quella del cinema, in una delle sue forme originarie, ovvero le “vedute” del Cinématographe Lumière, come finestre aperte sul mondo. Finestra in movimento costante, come il finestrino di un treno; finestra socchiusa, ambata come un orecchio proteso ad ascoltare la vita; ultima e fondamentale finestra, il vetro dell’obiettivo di una videocamera situata à la place du cœur. Questo sguardo più documentario, che si allontana dalle potenze dello sfocato per ritrovare una certa presenza “immediata” della realtà, è semplicemente l’altra faccia della trasfigurazione dei Videodiari: vi si incarna la stessa cognizione dell’effimero, la stessa necessità di confrontarsi con l’effimero, prendendo alla lettera la visione baziniana del cinema come “impronta” della realtà. “L’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela”: Bazin sottolineava la doppia natura dell’immagine cinematografica, al contempo registrazione e rivelazione, interpretazione passiva e attiva del mondo. La coerenza “baziniana” del lavoro di Santini è più profonda di quanto può sembrare, e si ritrova ancora in uno dei suoi ultimi film, lo splendido omaggio a Corso Salani, Dove non siamo stati, che recupera la voce dell’amico regista per Dove sono stato come una traccia del tempo, per meglio filmare la sua assenza, oggi, nelle immagini dei luoghi in cui Salani avrebbe dovuto interpretare un prossimo progetto di Santini. Il cinema registra la realtà, quindi anche l’assenza di ciò che non è più.
Lo sguardo di Santini ha preso strade diverse, dal diario fino al documentario “contemplativo”, per rispondere con più fedeltà a un impulso d’autenticità nel rapporto alla realtà, che fa del cineasta un “filtro” (come Bazin ebbe a definire il ruolo di Rossellini), inevitabilmente soggettivo: la forma è il luogo in cui s’inscrivono materialmente il suo sguardo, il suo desiderio, il suo spaesamento, la sua angoscia, il suo amore. Parafrasando Deleuze, potremmo dire che Santini non restituisce un’immagine della realtà, ma l’immagine come realtà materiale: realtà e immagine sono inscindibili l’una dall’altra come le due facce di un vetro. In questo senso, l’apparente formalismo e l’apparente realismo delle due “fasi” dell’opera di Santini sono le due facce di una stessa medaglia, come l’immagine sfocata dei Videodiari e l’immagine netta dei Giornalieri. Perché il cinema di Santini è comunque uno sguardo sul presente come impermanenza delle cose, e l’attimo è quel nugolo di memoria, indistintamente reale e immaginario, di cui Santini cerca di comprendere le condizioni di esistenza. Il cinema ha il potere di trascrivere il presente, ma la sua impotenza più fondamentale è quella di sottrarsi all’inesorabile scivolio del tempo. Il cinema “diretto” cui sembra approdare nei “giornalieri” è sempre motivato da un racconto interiore che si scrive mentre si cerca, e si definisce meglio al montaggio e al mixaggio: persone che sembrano aspettarsi, telefonarsi, volersi incontrare, sempre osservati “da lontano” (è il titolo di uno dei Videodiari), con uno sguardo che dietro l’apparente oggettività nasconde l’irruenza del soggettivo. Quasi una risposta dell’immaginario alle vite separate, divise, solitarie della città moderna.
In bilico tra Videodiari e Giornalieri, Un jour à Marseille (miniDV, 2006) realizzava già la combinazione di diario e di sguardo documentario. Dopo il movimento di oggettivazione della memoria dei videodiari, Santini si è dedicato a interiorizzare il mondo; questo è anche il movimento del film, che inizia all’interno di una camera d’albergo con gli sguardi notturni dalla finestra (e lo sfocato lambisce i margini dell’immagine, o allora tutta l’immagine quando la videocamera fatica a mettere a fuoco), quindi continua sotto il sole accecante di un porto (che sfuoca per sovresposizione, come se Santini avesse voluto “bruciarsi le ali” al contatto della realtà), per rovesciare infine lo sguardo, ed osservare da lontano un’altra intimità, la vita quotidiana di una famiglia in una casa in riva al mare – finché qualcosa attira l’attenzione di una bambina, laggiù, sott’acqua… e Santini ritrova nella materia instabile del mare e nella luce tremolante di un fine-pomeriggio il mistero della visione, il gusto dell’istante sfuggente, la curiosità provocata dall’indistinto, il fascino dell’indiscernibile. Trasforma infine in meditazione riflessiva il suo bisogno di osservare da lontano, il suo gesto di voyeur – un gesto senza il quale il cinema non esisterebbe, dai Lumière fino Brakhage, de Peeping Tom a Rear Window, da Godard a Depardon: nessuna visione senza rischi, ed è proprio questo che scatena l’immaginazione dello spettatore.
Nel corso degli anni 2000, Mauro Santini ha trasformato il suo cinema di “fasmidi” (gli insettistecco, la figura del flou e dell’ambiguità per Didi-Huberman) in un cinema di “efemerotteri”, piccoli insetti che vivono solo lo spazio di un giorno, e che rappresentano al meglio l’idea dei “Giornalieri”. Ed è così che cerca ancora e ancora di salvare l’effimero e, come il pittore di Merleau-Ponty, Santini “ci fa vedere il visibile”. Il suo cinema cerca, esita e non può che accettare la propria onesta fragilità – quella fragilità che ci accomuna in quanto esseri viventi, ma anche la fragilità incrollabile, resistente, di un cinema che sogna di trascrivere l’effimero e di condividerlo, come l’ombra di un’ombra, la traccia di una traccia. Mauro Santini ci dimostra che lo sfocato non è una forma in sé e per sé, ma come ogni forma cinematografica il riflesso di un desiderio – reificato, laddove esso si lascia prendere dal gusto della formula, o si coagula in codice (ad esempio di un certo cinema “creativo”); oppure sincero e autoriflessivo, laddove si lascia mettere in crisi e perfino abbandonare, poco a poco, per meglio riscoprirne l’intensità. Lo sfocato non è più al centro dei “Giornalieri” ma nei suoi margini, nella precarietà e imprevedibilità delle condizioni di ripresa e nelle esitazioni di messa a fuoco dell’obiettivo – quando la focale lunga della videocamera fatica a mettere a fuoco l’immagine. Lo sfocato diventa quindi una strategia formale più sottile, quasi impercettibile, ma anche sottoposta all’alea delle riprese, ed immediatamente registrata e digitalizzata. Santini riscopre e prosegue con altri mezzi quello sguardo “da lontano” sull’effimero, che è la cifra del suo cinema. Lo sfocato non è più il fulcro di una poetica della trasfigurazione, ma l’effetto collaterale – ma non meno fondamentale – dell’inscrizione del gesto del filmmaker nei suoi “lavori”.


pubblicato su “Fuori norma. La via sperimentale del cinema italiano” a cura di Adriano Aprà. Marsilio, 2013

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