i non ricordi di mauro santini

Bruno Di Marino
I NON RICORDI DI MAURO SANTINI

Se per Barthes la fotografia rappresenta l’è stato, per Santini la fotografia indica l’incertezza dell’essere stato, l’incertezza dell’essere, l’incertezza di uno stato, qualunque, dell’anima. Fissare in un’immagine ciascun giorno dell’anno, non solo è pura utopia, ma è il tentativo disperato di lasciare una traccia del/nel tempo che si rifiuta di materializzarsi. Lo è ancora di più se il dispositivo è uno smartphone e se lo scatto da esso prodotto viene “postato” su una piattaforma web: dunque registrato da un dispositivo ontologicamente fragile e casuale e supportato da un altro dispositivo, la rete, che si configura nella sua esistenza fluida e risulta un medium ancora più instabile. Delle 365 immagini ne restano solo 12, una per ogni mese dell’anno. Sono immagini di paesaggi naturali, colti magari dal finestrino di un’automobile, dunque filtrati, schermati, incorniciati, ridotti a frammenti di frammenti, quasi come se l’autore – nella sua necessità di mettere continuamente in parentesi l’immagine – volesse negarne lo statuto di ricordi. Le immagini di Santini sono a tutti gli effetti dei non-ricordi. A volte la veduta è chiara, anche se mai davvero nitida; altre volte, più di frequente, la veduta è opaca, appannata, nebbiosa, astratta. Il paesaggio di marzo o quello di novembre sono il frutto della condensa (un dispositivo naturale), delle gocce sospese sul vetro. Sublime è lo scatto che riassume il mese di febbraio: uno squarcio di paesaggio innevato che affiora dalla trasparenza vaporizzata. È forse l’immagine anche più narrativa nel suo negare leopardianamente la visione. E a un altro poeta, Giorgio Caproni, Santini allude quando cita in un appunto i suoi versi, epigrafe perfetta per queste dodici visioni: “Tutti i luoghi che ho visto / che ho visitato / ora so – ne sono certo: / non ci sono mai stato. Dove sono stato, dunque… o forse meglio Dove non siamo stati ?”
Non-luoghi e non-ricordi. Astrazioni e geometrie della mente, costruite un po’ come molti lavori video di Santini, a proposito dei quali – una decina di anni fa – scrivevo: «Che cos’è la memoria, che cos’è una memoria. L’insegna sbiadita di una pensione portoghese o lo sguardo buffo, tenero e smarrito di un bambino che guarda verso la camera dietro i vetri di uno scuolabus (Fermo del tempo, ma si potrebbe anche dire fermo nel tempo). Una sola immagine contiene tutte le altre. Ciascuna sequenza genera mille altre sequenze che slittano le une nelle altre. Non solo all’interno di uno stesso video, ma anche da un video all’altro. Corpi impastati nella luce, che affiorano sulla superficie. […] La mente è come un tergicristallo che può cancellare e far riapparire i ricordi sbiaditi (Petite mémoire). […] E poi c’è sempre un paesaggio che scorre dal finestrino, sovraesposto, decomposto. Magari è il finestrino appannato di un treno che diventa ulteriore cornice all’interno dell’inquadratura. […] Il viaggio è qualcosa di imprescindibile per Santini. Ogni video nasce necessariamente da uno spostamento, forse da una breve vacanza (Da qui, sopra il mare). Il video è itinerante per natura. È transito, trapasso da un linguaggio all’altro».


dal volume ‘diariodiunanno’, agosto 2014 (paolo nava, milano)

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