lo sguardo del viaggiatore solitario

LO SGUARDO DEL VIAGGIATORE SOLITARIO
Conversazione con Mauro Santini a cura di Michele Moccia

Finalmente riusciamo, Mauro ed io, a trovare il tempo per fissare le parti di questa conversazione, le riflessioni da cui prende spunto sono nate dalla (ri)visione, nel tempo, dei suoi film, che costituiscono il “corpo” di uno sguardo fortemente coerente e cresciuto dal 2000, anno della realizzazione di Dove sono stato, al 2013, anno del suo ultimo film: Attesa di un’estate. Lascio Mauro libero di raccontarci questo suo affascinante percorso/viaggio che parte da Dove sono stato, tocca Un jour à Marseille e Giornaliero di città e passanti, si snoda dai Videodiari a Flòr da Baixa, e giunge fino a Dove non siamo stati a Il fiume, a ritroso e ai Frammenti di vita trascorsa. E provo a entrare, con le mie riflessioni, a lui rivolte, ancora più a fondo, nello sguardo di questo viaggiatore solitario, a essergli compagno di viaggio…
E se per un po’ mi sembra di essergli a fianco, ottengo, nel corso del cammino, con grande stupore il dono della sua visione soggettiva, cosa che mi permette di muovermi con rinnovata familiarità tra le sue immagini, fino alla sensazione di poter essere parte del suo stesso viaggio… (m. m.)

Vedute animate
Sì, un po’ come i Lumière, che pure piazzavano la macchina ben sapendo ciò che sarebbe avvenuto, che il treno sarebbe arrivato, nel mio caso si tratta soprattutto di preparare un campo in cui qualcosa possa avvenire, possa manifestarsi; un evento che potrà esser grande rispetto a ciò che sto realizzando, o minimo, o addirittura nullo, ma è la registrazione di questo manifestarsi che diventa la ‘cifra’ più importante del film. Intendo dire che se preparo un’inquadratura e all’interno di essa non succede nulla è anche quel nulla che può, curiosamente, interessarmi. È un percorso non definito a priori ma trovato cercando, come gran parte degli eventi e delle epifanie avvenute davanti alla mia camera in maniera casuale; parlo di una casualità cercata attraverso l’attesa che è certamente un elemento importante per il film che hai appena citato, Un jour à Marseille, e per Giornaliero di città e passanti, che ne è la continuazione. Un ottimo esempio di questo metodo puoi trovarlo nell’episodio di Lisbona, dove, nel momento esatto in cui preparo l’inquadratura, in questo pomeriggio assolato, con un albero e la sua ombra, giunge un passante, taglia l’inquadratura in diagonale, esce di scena a sinistra e, un attimo dopo, rientra in campo e si mette esattamente all’ombra dell’albero e lì inizia la sua telefonata e la sua attesa di un possibile appuntamento che non avrà luogo. Ecco allora che l’evento “mancato”, l’incontro fallito in questa piazza Sao Mamede assume un significato aggiunto se messo in rapporto al via vai continuo e agli incontri anche densi e pieni d’umanità dell’episodio di Marsiglia, così come all’inquadratura finale di Giornaliero, in cui decido di non seguire oltre i tre ragazzi nella strada notturna di Madrid, e il loro battibecco, forse amoroso; decido di non seguirli e di lasciare che si allontanino, con un gesto che oggi apprezzo molto, perché mi ha permesso di chiudere quell’episodio, e il film, con una ‘veduta animata’ involontaria. Devo anche dire che quando ho girato Giornaliero a Lisbona e Madrid, il mio punto di vista sulle cose si era modificato, a seguito di una burrascosa proiezione a Marsiglia di Un jour à Marseille, dove mi sono ritrovato attaccato in maniera anche veemente da parte del pubblico, che sosteneva che avessi violato la privacy delle bambine, nell’ultimo episodio del film, che tu hai citato, e del signore musulmano in preghiera nel Vieux Port; l’altra metà della sala, invece, mi difese a spada tratta, difendendo con me anche un’idea di cinema documentario, cosa che continuo a pensare di fare, nel documentare in prima persona un vissuto, riprendendo a volte coloro che vivono insieme a me nel quotidiano, altre volte raccontando città, magari attraverso porzioni di strade, di piazze, magari da finestre scelte a caso. Certo, un paio di piccole zoomate in avanti di Un jour à Marseille, che focalizzano maggiormente l’attenzione sull’interno della casa, oggi probabilmente non le ripeterei perché ‘vanno a cercare’ qualcosa in più, mentre ciò che mi interessa davvero è semplicemente ‘trovare’; per altro, la zoomata è un mezzo tecnico che non amo particolarmente, ma che, nella linea di un cinema libero da prese di posizioni pregresse e in continua mutazione, posso decidere di conservare come in questo caso, se funzionali al film. Direi però che questa pulizia dello sguardo è arrivata attraverso passaggi progressivi, perché prima di questi due film c’è tutto il percorso dei Videodiari che, se vuoi, in fase di ripresa vive già di questo senso lumieriano, ma che sicuramente nel montaggio e nella sovrapposizione dei piani è forse più vicino ad altre avanguardie, penso ad Epstein, e lo cito solo ora, a posteriori, perché se in questi anni questi piccoli film hanno avuto un loro seguito, credo dipenda anche dal fatto che mi sia liberato della zavorra del cinema; infatti nel momento in cui realizzo un film non ho alcuna figura cinematografica di riferimento, sono totalmente permeato di ciò che ho ripreso o sto riprendendo, come se fossi una carta assorbente pronta recepire una realtà in divenire; un vissuto che altri osserveranno come ‘cosa già vista’, filtrata dalla mia ripresa e poi dal montaggio.
Realtà
Ciò che mi interessa nel riprendere questi quadri di vita è la spontaneità della vita stessa e la realtà colta nel suo farsi, come nella nota che ricordavi apparsa sul un numero di Filmcritica [il riferimento è al numero 609/610 di Filmcritica, ndc]. Il fatto è che per me è fondamentale la continua sorpresa. L’idea di visitare un luogo senza conoscerlo mi affascina. Non sono interessato a un’idea di documentario che prima di riprendere conosce a fondo i problemi, le situazioni, gli uomini e i luoghi; se dovessi scoprire un luogo in questa maniera o lo conoscessi talmente a fondo, probabilmente per me il film sarebbe già compiuto. Quando conosco totalmente una situazione perdo il desiderio di raccontarla ad altri, non ho voglia di mostrare agli altri ciò che io so su quella cosa. Ciò che a me interessa raccontare a uno spettatore, attraverso lo sguardo, è questo senso di scoperta, questo non conoscere mai cosa succederà sulla strada che io sto riprendendo, scegliere un passante per il suo modo di camminare, ma improvvisamente deviare su un altro che cattura la mia attenzione e che porta il film altrove, girare l’angolo e non sapere che via troverò; questa sorpresa, questa continua epifania dello sguardo, a mio avviso, è fondamentale. Spero di portare questo senso di sorpresa in tutti i film che farò in futuro, perché è la cosa che mi interessa di più, insieme al racconto di un vissuto personale, che è l’altro motivo per cui faccio cinema: testimoniare un passaggio, anche semplice, su questa terra, potrà sembrare troppo ambizioso o al contrario troppo riduttivo, è ciò che mi porta a registrare immagini quotidianamente. Ed è anche il motivo, forse, per cui non faccio poi così tanti film, perché le immagini hanno bisogno di ‘posarsi’ e sedimentarsi, di allontanarsi dal momento della loro ripresa, della loro nascita, per divenire altro, un tempo vissuto che sommato ad altri frammenti possa dare il senso dello scorrere incessante del tempo, del mio e di quello di chi guarderà poi il mio film. Ad esempio mi trovo adesso a montare un film marinaro girato ad agosto e che avrei presentato volentieri in un importante festival lo scorso ottobre; le immagini però erano troppo ‘prossime’, era un tempo troppo al presente ed è stato necessario fermare quel processo iniziato con le riprese estive. Ora, in pieno inverno, quelle immagini di sabbia, di scogli, di pesci, di tuffi in mare, assumono un sapore e una forza, rispetto all’estate trascorsa, assolutamente fondamentale e diventano il motivo fondante della realizzazione di questo film, Fine d’agosto, appunto. Sarà probabilmente, dopo Attesa di un’estate, il secondo episodio dei Frammenti di vita trascorsa, una nuova serie di film fragili se presi uno ad uno, ma che penso possano farsi forza l’un l’altro nel tempo, così come in maniera spontanea è successo per i Videodiari nel decennio scorso. Se vogliamo parlare di un esempio concreto riguardo la spontaneità di questi quadri di vita, ritornerei a Un jour à Marseille, quando sul vecchio porto riprendo alternativamente il venditore di noccioline, i bambini che passano, la coppia seduta sul molo, e poi ancora il venditore di noccioline e quando vedo che si ferma e beve mi sembra che la scena sia finita. Decido, allora, di riprendere un piccolo circo lì vicino e panoramico a scoprirlo, sempre a mano; al termine di questo movimento, sento nel fuoricampo alla mia sinistra che il baracchino ambulante sta cambiando musica, non manda quella per bambini che avevo ascoltato fino ad allora, ma inizia una musica araba. Curioso di ciò che sta succedendo, torno su di lui e mi accorgo che non beveva affatto, ma che probabilmente stava facendo le abluzioni, perché vedo che si inginocchia; allora non nascondo la camera, ma l’appoggio e la lascio in registrazione a raccontare la sua preghiera, ed anche un momento di grande umanità in cui tre bambini gli chiedono qualcosa e lui si interrompe per parlare con loro ed offrirgli dei dolcetti. Ecco, la realtà colta nel suo farsi si manifesta e chiude alla perfezione la sequenza, non ho bisogno di vedere il finale della sua preghiera, ho scoperto che quell’uomo che sembrava così bizzarro, così pittoresco, è capace di interrompere la sua giornata, di trovarne il lato mistico e umano, di raccontarmi, senza accorgersi della mia presenza, questa umanità. Credo che se avessi tentato di mettere in scena questa situazione, magari la cosa sarebbe riuscita anche bene e nessuno si sarebbe accorto della finzione, ma dal punto di vista etico e morale mi sarei sentito una merda [non riportare questa parola], sentirei di aver fallito rispetto alla mia idea di cinema. Ecco dunque che, tornando agli attacchi ricevuti a Marsiglia dopo la proiezione, mi sento di dire che ritengo più sbagliato eticamente, nei confronti dello spettatore, mettere in scena e fingere una situazione piuttosto che scoprirla e raccontarla nel suo divenire; se questo poi comporta la messa a nudo di qualcuno che casualmente si è trovato nel mio campo di ripresa, non posso farci nulla… Certo, a volte quando succedono queste epifanie la cosa sembra talmente impossibile che chi ne scrive o gli spettatori quasi non riescono a crederci; ad Annecy il critico che teneva la conversazione sosteneva che fossi stato io ad aggiungere la musica araba nella sequenza e ho dovuto insistere fino a dirgli che gli avrei spedito copia della ripresa originale. L’aggiunta a posteriori della musica in una sequenza di quel tipo significherebbe tradire la mia idea di cinema, questo è un punto assolutamente fondamentale dal quale non mi muovo e non mi muoverò per tutta la vita; dovessi farlo, fammi ritrovare questa conversazione, perché vorrà dire che mi sarò compromesso in qualche modo.
Intimità
Flòr da Baixa è stato il tentativo di portare in un lungometraggio l’esperienza dei Videodiari, quella cioè di un racconto quotidiano, sempre filtrato da un punto di vista emotivo. I Videodiari hanno questo titolo perché desideravo che le immagini che ne facevano parte, risentissero del mio stato d’animo nell’atto della ripresa, così come quelle di un diario cartaceo, dove la scrittura può cambiare da un giorno all’altro, essere più precisa o più confusionaria a seconda delle situazioni o degli stati d’animo, o dove si possono trovare disegni, note, elementi che non c’entrano nulla con la scrittura in sé ma che testimoniano di un vissuto, a volte con una forza maggiore del testo stesso. Il tentativo era dunque, a distanza di cinque/sei anni dall’inizio di questa serie, di portare in un lungometraggio sperimentale quel metodo ormai consolidato, lavorando sempre senza sceneggiatura, con una piccola traccia iniziale: la separazione tra due persone e l’attesa di un possibile ricongiungimento, attraverso la differenza di punto di vista tra uno sguardo soggettivo, il mio nelle città (Rio, Taranto e Marsiglia), e quello oggettivo, concreto, come dicevi tu, dopo un inizio, quasi celato, di figura femminile. In Flòr, Monica fa la spesa, mangia, si addormenta, fa cose concrete, mentre il mio sguardo si muove nelle città registrando, se vuoi, le visioni animate da cui siamo partiti in questa conversazione. A differenza però di Marseille e Giornaliero il tentativo è stato quello di permeare queste città del mio sguardo, lasciando che esse si mostrassero ai miei occhi. Questo rende il film discontinuo, ma era proprio questa la scommessa, fare un film anche disomogeneo, ma che mostrasse ciò che le città mi avrebbero dato a vedere e il modo in cui io le avrei recepite, cioè l’idea che il mio sguardo potesse impregnare ogni immagine di un senso di solitudine, quella del viaggiatore solitario che sa di aver lasciato, forse per sempre, il suo amore alla finestra del Flòr da Baixa. Flòr voleva essere un film capace di raccontare attraverso lo sguardo e attraverso uno sguardo permeato di questa solitudine. Una scommessa abbastanza forte, anche ambiziosa, presuntuosa, se vuoi, ma un film che oggi, a distanza ormai di sette anni, ad ogni proiezione (magari rimanga tra noi) mi fa dire: però, che coraggio fare un film così e presentarlo in concorso a Torino. Flòr e Marseille sono due film in fondo molto diversi, come dici tu, ma rispecchiano la realtà delle riprese, che a Marsiglia avevano una tale forza da non poterle contenere nel solo episodio marsigliese di Flòr, richiedevano una loro evidenza da ‘costringermi’ ad un nuovo film, indipendente dall’altro. Diciamo in poche parole che Flòr dipende fortemente e in maniera totale dai Videodiari e, quindi, lo sguardo lì è condizionato dal mio stato d’animo e dalla mia intimità, mentre in Marseille e in Giornaliero questo non succede; lì davvero divento una finestra sulle cose.
Il diario del tempo
Riguardo al tempo mi hai citato la parola “tirannia” ed è ciò che ho un po’ provato durante quest’anno nella composizione del diariodiunanno (una raccolta di 365 immagini, una al giorno, lungo tutto il 2013), perché sai, ci sono giorni in cui una fotografia puoi anche non trovarla e la sera magari puoi non aver tempo per prepararla e caricarla in rete. Mi fa piacere che me ne parli e che ci sia questo rimando, perché considero questo progetto un po’ un’estensione dei Videodiari, e avevo pensato anche a un nuovo progetto simile, sempre in rete, che prevedesse immagini in movimento. Bene, ogni volta che nel diariodiunanno si chiudeva un mese, e postavo in rete l’archivio mensile, avevo la percezione visiva del mese appena terminato e la cosa è stata ancora più amplificata quando si è chiuso l’anno: poter abbracciare in uno sguardo questo tempo trascorso, o vedere che cosa è successo, ad esempio il nove febbraio scorso, è per me una testimonianza davvero importante. La cosa che mi ha spinto a tenere questo diario e che mi muove da sempre a registrare immagini, è il tentativo di fermare in qualche modo questo tempo che scorre, queste cose che fuggono, fermarle almeno nel ricordo, far sì che queste immagini possano almeno avere una permanenza visiva, concreta, che possano testimoniare il mio essere lì in quell’istante a raccontare qualcosa che succedeva davanti ai miei occhi. Lo faccio per me in prima persona, poi se ci sono altri che vogliono salire, come nei Videodiari, su quel vagone e con me vogliono passeggiare per luoghi e città, ancor meglio. È in fondo ciò che succedeva in Di ritorno, più di dieci anni fa, uno dei pochi film che vedono la presenza della mia voce off, dove durante un viaggio di ritorno verso una casa d’infanzia, immaginavo, sulle tracce di un disegno fatto da mio figlio, molto piccolo all’epoca, di trovarmi in una situazione in cui c’erano il sole, le gallerie e i binari, ma non il treno, cioè di trovarmi fermo, circondato da immagini che scorrendo mi riportavano indietro, come tapies-roulant della memoria.
Di ritorno fu realizzato a seguito della scomparsa di mio padre, nel tentativo di rielaborare questo lutto e questa mancanza e nel film durante il viaggio compaiono qua e là immagini sue e di mia madre, fino all’arrivo alla casa d’infanzia, dove a quel frammento mancante, a quel muro screpolato, si sovrappone la foto di famiglia, nel tentativo di ricostruire un’immagine domestica ormai legata solo alla memoria. Ci sono altri due Videodiari in cui questo elemento è molto presente: Fermo del tempo nel quale partendo da una fotografia della prima gita scolastica d’asilo di Giacomo, mio figlio, vado a raccontare la situazione in cui mi trovavo in quel momento, subito dopo la scomparsa di mio padre e l’arrivo di Giacomo, e cioè il passaggio dall’essere figlio di qualcuno all’essere padre di qualcun altro. Nella parte centrale di Fermo del tempo, senza morphing e senza espedienti tecnici, ma attraverso la semplice sovrapposizione di tre immagini, cerco di creare un volto che rappresenti mio figlio, me e mio padre, cosa che poi ho portato avanti anche in Cosa che fugge che nasce da una video istallazione per due monitor laterali 4:3 e un monitor centrale 16:9, dove nei due monitor laterali, nell’arco di cinque minuti, il mio volto diventa quello di Giacomo e viceversa, avendo alla metà esatta della durata un volto che non è più né suo né mio, o più precisamente che appartiene ad entrambi, e al centro un corpo di donna che diventa viaggio, generazione, amore, sesso. L’altro dei Videodiari che segna in particolare la questione è Da qui, sopra il mare dove in quel fermo del tempo della stanza, in quell’affacciarsi di Monica a una finestra buia, scopro un vissuto altrui, una cucina che ha in sé tutti i segni del passato, e sui muri della cucina vado a proiettare la memoria di Monica, portata dai super 8 di suo padre. Questo film nasce da un sopralluogo in un paesino della costa marchigiana che pensavo potesse fare da sfondo a un film che avrei voluto girare con Corso Salani, con lui si scherzava spesso su questi film non fatti, perché avevo almeno due o tre possibili soggetti da girare insieme che non portavo mai a compimento. Fu durante questo sopralluogo che trovai questa casa e questa finestra buia dalla quale l’occhio umano non riusciva a percepire nulla, mentre la camera al massimo dell’esposizione riuscì a dare testimonianza di questa cucina in cui il tempo si era fermato e depositato; ecco dunque che da un sopralluogo per un film nasce invece un videodiario, mentre non è stato poi mai realizzato il film che mi aveva mosso verso quella città.
Il viaggiatore solitario
Mi piacerebbe raccontarti come nel 2000 è nato Dove sono stato: scrissi il testo basandomi su un viaggio che avevo fatto nel 1995, a Lisbona, a quel tempo non avevo un computer adatto al montaggio video, quindi fotografavo il girato dal monitor della tv, stendevo a pavimento le foto e scrivevo il testo che raccorda nel fuori campo le immagini del film. Definirei quindi Dove sono stato un film di found footage, seppur involontario, realizzato però non su immagini girate da altri bensì da me stesso durante un periodo precedente della mia vita, dove luoghi e figure assumono, attraverso il testo, un ruolo loro estraneo, diventando miei inconsapevoli compagni di viaggio. La tua osservazione rispetto al finale del film mi interessa molto, al punto da farmi riconsiderare quella prima versione cui poi cambiai il finale in occasione di una personale al Trieste Film Festival, che poi è la versione passata anche a Fuori Orario, vien voglia di riprendere in mano il film e riportarlo al suo finale originario, perché, effettivamente, la tua nota sul cambio del punto di vista, Mauro ripreso da Aldo, fa diventare il tuo film, a mio avviso, più interessante… il mio film… ho detto il tuo film… perché lo fai tuo e lo interpreti a tuo modo e ne dai una lettura che a me piace molto. Rimontandolo per Trieste, il film mi sembrava già chiuso una volta accertato che Aldo, che io stavo cercando, era vivo e fuori pericolo, in una sorta di volontario esilio lusitano. La tua lettura invece è interessante perché in qualche modo mi chiama in causa. L’idea di qualcuno che prenda la camera con la quale io ho raccontato quel viaggio in prima persona e che mi smascheri, mi mostri, mi piace molto. Il fatto è che a distanza mi ero reso conto che in tutti i Videodiari la mia immagine non compariva mai, se non in un’ombra o in un riflesso alla finestra, e allora questo ritratto così oggettivo e così presente che saluta sorridendo all’autore della ripresa mi sembrava che contraddicesse tutto lo sviluppo che la serie aveva poi assunto. È la questione del punto di vista, di chi guarda cosa; una questione che si è presentata con problematica diversa ne Il fiume, a ritroso, girato molti anni dopo, nel 2012. Come ho già detto non sono molto interessato ad un cinema di sceneggiatura, di dialoghi, di campi e controcampi; sì, è vero che ne Il fiume, a ritroso ci sono un paio di campi e controcampi, ma è proprio la loro totale assenza durante il film che li rende due segni forti, proprio perché sono gli unici. Sono il campo e controcampo in cui Nico/Jolanda si trova in casa di uno sconosciuto, che l’ha appena salvata dai lupi e dalla deriva lungo il fiume, ma che forse la tiene prigioniera; e quello in cui la ragazza è scoperta nella sua osservazione curiosa di Andrea/Morgan dal cannocchiale dello stesso. In questo film per la prima volta, rispetto al cinema in prima persona, da viaggiatore solitario, che ho sempre realizzato, mi sono trovato a raccontare il rapporto tra due persone, ed è curioso che mi sia successo dopo oltre dieci anni di fare cinema. In prima analisi avevo previsto che i due si sarebbero parlati; esistono infatti una serie di riprese ed una prima versione in cui i due si raccontano l’un l’altro. Poi ho deciso di eliminare questo dialogo, perché finiva per indebolire il rapporto misterioso e di sottile complicità che si era venuto a creare, era come se il film cambiasse improvvisamente registro. Il fiume, a ritroso mi ha dunque fatto scontrare con il rapporto tra i personaggi, confermando a me stesso quanto questo cinema sia lontano dalle mie caratteristiche; non mi importa raccontare un personaggio e la sua psicologia, torniamo al cinema tradizionale che non mi interessa, può piacermi da spettatore ma non mi interessa realizzarlo. E, come dici, c’è questo scarto forte che tu intravedi già, nell’immagine finale di Dove sono stato, tagliata, probabilmente tagliata non a caso; magari, inconsciamente, l’ho eliminata proprio per evitare questo problema con il quale non volevo confrontarmi.
La ripresa del viaggio
Devo dire che, mancando proprio di questo dialogo che avevo previsto tra i due protagonisti, non riuscivo a risolvere Il fiume, a ritroso. Poi ho compreso che, così come Flòr da Baixa traeva le conseguenze dai Videodiari, anche questo film doveva trovare il suo senso non tanto nella storia seppur minima o nel rapporto dialettico tra i personaggi, quanto riprendendo il discorso sullo sguardo, che avevo poco considerato, attento com’ero a tessere per la prima volta, chiamiamola così, una ‘relazione umana’ di coppia, e l’ho trovato infine nello sguardo parallelo di Flòr. C’è infatti una sequenza ne Il fiume che è stata introdotta solo alla fine; dopo l’intimità che si è creata tra i due nella scena del camino e del sonno di Jolanda ‘accarezzata’ da Andrea, lei si ritrova sola in casa, per la prima volta Andrea non ritorna dalle sue ricerche notturne e Jolanda si muove sulle sue tracce cercandolo. Ecco, la sequenza che giunge a questo punto del film è figlia dello sguardo parallelo che apparteneva a Flòr; è, infatti, una mescolanza di due sguardi, in questo caso soggettivi, quello di Andrea in una situazione di pericolo e quello di Jolanda alla sua ricerca. Ma l’impressione che ne avevo era quella di un unico sguardo, proprio come nell’inquadratura finale di Flòr. Chi ‘guarda’ quella sequenza? È ciò che mi sono chiesto. Ho compreso che proprio attraverso questa confusione di sguardi avrei potuto dare un senso al film, e l’ho trovato in un elemento sonoro: il respiro affannato al termine di un’inquadratura faticosa sull’immagine di quegli alberi sullo sfondo del cielo. Sono io ad ansimare per una fatica della ripresa, fatica che è la stessa che si può percepire a volte nei Videodiari, la stessa che io riconoscevo, allora, nel pulsare del mio cuore, nel tremito della mia mano durante un’inquadratura tenuta, in attesa; lì c’è la vita, davanti e dietro l’obiettivo, lì c’è il mio sguardo, e in questa sequenza de Il fiume ho fatto miei i loro sguardi, ma allo stesso tempo ho dato loro il mio. È qui che prendo le tracce lasciate sospese dai Videodiari e da Flòr e le porto in un contesto minimamente narrativo: è qui che il viaggiatore solitario dei Videodiari prende lo sguardo dei due protagonisti e lo fa suo. Credo che da Il fiume, a ritroso io debba ripartire con altri film, ed è una riflessione di cui già ti ho detto, quando ti ho parlato del progetto tratto da un libro che amo molto, dove a un certo punto vorrei che ci si liberasse della zavorra del testo e tutto fosse giocato sullo sguardo. Tempo fa ti dicevo che ad un certo punto di questo possibile film futuro, si dovrebbe perdere lo sguardo oggettivo sul personaggio e far sì che lo sguardo dellonspettatore divenga lo sguardo stesso del protagonista sulla sua campagna che muore e sull’assenza della donna scomparsa. La sua assenza, il suo vuoto messo in parallelo al gelo che ha ucciso la campagna, provoca uno spostamento in avanti soggettivo dello sguardo, capace di generare memoria e desiderio… e mi riporta ancora a quello sguardo del viaggiatore solitario, allo sguardo soggettivo che non è più suo ma mio, o meglio ancora, di entrambi.
Lo spazio, la natura, il set e i suoni
L’idea della scoperta e della sorpresa continua, implica che la ripresa sia uno strumento di scrittura in assenza di sceneggiatura e ciò presuppone, prima di tutto, che non ci sia un set. In fase di ripresa è fondamentale la massima libertà, che comporta l’assenza di un set luci e l’assenza di un cavalletto: per nessuno dei miei film ho usato un treppiede, tranne che per Dove non siamo stati. La camera deve essere assolutamente a mano e pronta a deviare in ogni istante e a seguire qualsiasi situazione di spazio o di figure che si presentino e che facciano nascere quella sorpresa e quella epifania che può rivelarsi, come ti ho già detto, anche in cose minuscole, come la coccinella che si posa sul volto della protagonista mentre sto preparando un primo piano, ne Il fiume, a ritroso. Questo è fondamentale. Quello che, spesso, comporta questo tipo di approccio nei confronti della realtà che ho davanti è l’attesa che l’evento si realizzi: cosa accadrà? quando terminerà quella ripresa? si tratta di ‘tenere’ l’inquadratura e di raccontare anche questa fatica. Riguardo allo spazio e alla natura ritornerei a Il fiume, a ritroso, e alla figura di Andrea, il protagonista, che mi ha da subito affascinato perché è un naturalista che vive in solitario nei boschi e nei rifugi di alta montagna, facendo quello che vediamo nel film, cioè censimenti di animali selvatici, in particolare di lupi: attraverso gli ululati riesce a capire ad esempio se ci sono lupi in branco, nidiate o lupi solitari, in dispersione. È stato affascinante scoprire una figura di questo tipo, mi interessava il suo lavoro, la sua relazione con la natura, l’ho visto da subito come un possibile Morgan contemporaneo. Lui e Nicoletta, che con i suoi grandi occhi smarriti nel film interpreta Jolanda, incarnando pienamente la fragilità dell’eroina del romanzo salgariano, erano due figure che potevo correlare ai personaggi del libro. Ho girato il film cronologicamente risalendo con Nico il fiume dalla foce e ho fatto in modo che si conoscessero il giorno stesso in cui Andrea la salva portandola con sé; da lì in poi, durante dieci giorni, nel rifugio sopra la Gola del Furlo, ho raccontato il loro scoprirsi e il nascere della loro intimità, e ciò è stato possibile perché la troupe era minima, io, loro e un aiuto camera: ecco che torniamo alla questione del set. Anche per Carmela, salvata dai filibustieri la troupe era leggerissima, composta soltanto da me e da Giovanni Maderna, e anche in questo caso senza sceneggiatura e lasciando largo spazio all’improvvisazione. Parallelamente alla totale libertà in fase di ripresa, è altrettanto importante la registrazione del sonoro, soprattutto nel nuovo percorso inaugurato con Attesa di un’estate, dove ogni suono è presente nel momento della ripresa; infatti, mentre nei Videodiari dilatavo le immagini e con esse anche i suoni, trovando a volte nello scarto o nelle code di ripresa le immagini più interessanti e nei difetti di registrazione sonora quell’elemento in più anche emotivo che rafforzava l’immagine, nella serie dei Frammenti di vita trascorsa il suono è registrato in presa diretta parallelamente all’immagine, e, dunque, è molto importante avere un set totalmente disponibile sia sul piano visivo che su quello sonoro, con la possibilità di muoversi a 360 gradi e di avere, insieme, la totalità dei suoni presenti durante la ripresa.
Abbandoni e assenze
Sì, come dici tu, ricorre spesso anche il tema dell’assenza, assenza di qualcosa o qualcuno, che può essere una persona cara o un amico scomparso, succede per l’amico inventato di Dove sono stato e per quello reale di Dove non siamo stati, realizzato in ricordo di Corso Salani. Per questo film ho recuperato frammenti audio non utilizzati e ripetizioni di alcune frasi recitate da Corso per Dove sono stato, alcuni suoi sorrisi o accenni, e li ho riproposti come fuoricampo sonoro sulle immagini di un luogo nel quale avrei voluto girare un film, con lui, un luogo in cui ho cercato di muovere la camera in sua assenza. Come già dicevo, Dove non siamo stati è l’unico film che giro a cavalletto, forse perché poteva essere un film con una minima sceneggiatura e dei rapporti tra i personaggi; muovendo la camera in lente panoramiche che si fermano e poi ripartono, magari in direzione contraria, vado alla ricerca di una possibile presenza, una presenza che non si materializza mai, il senso di qualcosa che possa succedere e che mai a viene, raccordando le varie sequenze con la sua voce off e le sue ripetizioni. L’assenza, già presente in Dove sono stato, è qui ancora più amplificata, perché è un’assenza reale, quella di un attore e regista che era anche un amico. E l’assenza torna, in una forma diversa, nel mio ultimo film, Attesa di un’estate, disseminato di elementi visivi e sonori che per me raccontano di continue assenze e distacchi. Attesa di un’estate è montato in modo da rendere continuamente l’impressione di una perdita, non ci sono dissolvenze, suoni e immagini sono spesso troncati e qualcosa manca, continuamente. Per arrivare poi, dolcemente, ad una fotografia che mi ritrae con mia madre, l’ultima insieme, poco prima della sua scomparsa. Non essendoci parole il tutto è quasi subliminale, dissemino il film di continue assenze, affinché chi guarda possa percepire, pur non conoscendo la mia storia personale, il senso di questo vuoto, così forte e, per me, incolmabile.


Pubblicato su ‘Filmcritica’, marzo 2014

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