tra(n)sparenze

Michele Moccia
TRA(N)SPARENZE

“Se mi venisse chiesto di rispondere, in maniera sintetica, alla domanda canonica: “Che cos’è il cinema?” potrei dire che è Spazio e Tempo, Luce e Ombra”. (Vittorio Giacci, Immagineimmaginaria).

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Due sequenze per cominciare: il volo di un gabbiano che attraversa l’inquadratura in un cielo grigio su un mare in tormenta, prima di essere inghiottito dalle spume che si levano dall’agitarsi delle acque; un piano sequenza che fissa il lento dissolversi di una nuvola in un cielo sereno. Sono i segni di un inquieto tendere delle cose verso il fuori-campo. Lo stendersi e l’estendersi della durata reale di un momento che è continuo e incessante movimento. Battito d’ali. Alato intermittente de-formarsi delle immagini, che si accorda, come in un passo di danza a due, al battito delle nostre palpebre. Fino a farsi ombra. A trasparire. Regola del gioco. Regola del cinema. Che nella sua esuberante e vitale giovinezza già fissava l’entrata delle ombre nella dimora del fuoricampo (Jean Renoir).
Il cinema è la fascinazione della luce (della memoria) nella sua incantevole interminabile danza con l’ombra (dell’oblio). Bisogna giungere ai campi e ai vasti quartieri della memoria, come vuole Agostino nelle sue confessioni, per far ritornare le immagini. Da lontano. Come nel titolo di uno dei primi cortometraggi di Mauro Santini. Sette minuti in cui le figure diventano lentamente indistinte macchie di colore, inchiostro su fondo bianco, monocromi imprecisi, ombre che si inseguono in una danza suggestiva e immaginaria. Dell’immaginario Mauro Santini insegue le forme (familiari) nello spazio e nel tempo, tra le luci e le ombre. Nel loro intermittente ritornare. Come testimoniano i titoli dei primi lavori del regista pesarese (i cortometraggi raccolti sotto il titolo di Videodiari: Di ritorno, Dietro i vetri, Fermo del tempo, Petite memorie, Da qui, sopra il mare) fino agli ultimi cortometraggi Cosa che fugge e Notturno.
Le figure di Mauro Santini perdono i contorni, si sfocano, si sfumano, sono immagini del pensiero, forme di un universo mentale in cui si cerca di fermare il tempo. Di fingerne un fermo. Con tocco ipnotico e sognante Santini rallenta, dilata, distende i tempi della sua inarratività, mentre lo sguardo appare come immerso nell’acqua (simbolo elementare ricorrente in molti dei suoi lavori). E’ come guardare in apnea figure che si agitano di là della superficie equorea che l’immagine stessa sembra poter diventare. Da qui, sopra il mare. Quell’elemento fluido fluido sul quale sembrano agitarsi gli occhi. Occhi che scrutano, colgono, cercano di trattenere il riflesso di una presenza… S’introduce a volte nel pensiero / come nell’acqua, un riflesso / che l’attraversa e ne misura il fondale / E’ un occhio che si apre / dentro le luci dell’onde e vi affonda (Valerio Magrelli). In Fermo del tempo un volto appare bagnato dall’acqua che a esso si sovraimprime. E l’immagine sembra poter tornare a essere un cuore fedele, come già nelle poetiche sovrimpressioni di Jean Epstein, perché ancora legata al(la possibilità del) ricordo, alla possibilità di (ri)dare forma a ciò che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto (ancora Agostino). Immagini-tra(n)sparenze, come in una (dis)illusione d’amore che presentifica i corpi nei loro (trasparenti) incarnati, come nelle brevi apparizioni femminili, fantasmi che (ri)abitano le immagini, che si dissolvono in esse, figure eteree di interni quasi astratti o estartti da un non so quale periodo blu o rosa o d’altra affascinante tonalità affettiva. Come nei volti insistenti che si rivelano nelle immagini. E Cosa che fugge e Notturno non sono forse un elogio d’amore per il volto? Il volto presente nel suo rifiuto di essere contenuto…Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa (sono le meravigliose riflessioni di Emmanuel Lévinas sul volto). Mentre il lento zoom iniziale che apre Flòr da Baixa, in quello scorcio di stanza vuota, verso il mare che si intravede attraverso i vetri e lo spiraglio delle ante del balcone semiaperte, è la rievocazione di altre immagini, come nel piano sequenza di Michael Snow in Wavelenght. Ricordo che ritorna un attimo dopo, nello stesso film, da un movimento analogo e opposto al primo, che ritrae lo sguardo dallo scorcio di una nave merci al suo rivelarsi essere una fotografia.
I lavori di Mauro Santini sono anche ritratti di viaggi. Da Flòr da Baixa, viaggio tra Lisbona, Rio de Janeiro, Marsiglia e Taranto, a Un jour à Marseille a Giornaliero di città e passanti, tra Marsiglia, Lisbona e Madrid, fino a giungere, a ritroso, all’esordio del regista con il cortometraggio Dove sono stato, viaggiodiario nella città di Lisbona, raccontato dalla voce fuoricampo di un altro viaggiatore solitario del cinema, Corso Salani. In questi ritratti di città, come spiate dall’oblò di un aereo, dai vetri di una macchina, dalle imposte di una finestra d’albergo, lo sguardo di Santini osserva i corpi e i luoghi, i gesti, gli incontri e le conversazioni silenziose. Vedute animate di una soggettiva che coglie i momenti intimi di una preghiera, uno scorcio di strada nel suo passare dalle luci della notte a quelle del giorno, l’agitarsi delle fronde degli alberi allo spirare del vento… A essere presenti (ancora per quanto?) sono le immagini (e la voce): gli ultimi ricordi sono una panchina lungo il molo, il vento che alza una gonna e la sirena di una nave… In attesa che gli occhi tornino a narrare a viaggiare a guardare… Dove non siamo stati.

Pubblicato in ‘Filmcritica’, n.613, marzo 2011

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